domenica 15 gennaio 2012

A mio padre.





Eri vivo come l’argento nella tua adolescenza.
Quanto buono.
Di un buono che è difficile qualificare, descrivere.
Vivo e forte come un toro, quanto pacifico.
Vivo e curioso, di tutto.
La quinta elementare non ti bastava.
Ti piaceva troppo conoscere, sapere.
Hai ottenuto di poterla fare ancora, di ripeterla, per la sola passione della conoscenza.
Per poi ripeterla ancora da adulto, ancora una volta, solo per quella passione.
E tanto amavi la natura, il destino del tuo lavoro contadino, quanto “il sapere”, la conoscenza, la cultura.
Un contadino atipico, un po' speciale, che alla sera leggeva poesie.
Eri un uomo che amavano tutti, che rispettavano e stimavano.
Buono e intelligente, con dentro la vita, il suo sorriso.
Sorridevi sempre.
Tranne quando un giorno ti hanno caricato su un treno.
Un lungo treno per un lungo viaggio.
E poi su una nave, tu che non avevi mai visto il mare.
E poi dentro il lurido di una trincea, ad ammazzare persone.
In mezzo ai topi, al fango, ai ragni e alla morte.
Avevi trent’anni.
E già diciotto di lavoro alle spalle.
Dentro a quella lurida trincea, dentro all’odore della morte.
Della polvere da sparo di un cannone e l’acre del sangue, dei tuoi amici morti, o mutilati per sempre.
Sono cresciuto dei tuoi racconti, della guerra che ti era rimasta lì, dentro.
I bambini fanno domande imbarazzanti e quando a volte ti chiedevo “ma hai ucciso qualcuno?”, rispondevi che era giunto il momento di andare a riposare, il lavoro ti aspettava all’alba del giorno dopo.
Sorridendo e rassicurandomi.
Hai lavorato come un matto per cinquantadue anni, lavori duri, durissimi, superando tutti gli ostacoli della vita.
Senza mai perdere il sorriso, e quell’aura di positivo che a settant’anni  di rendeva ancora lo spirito di un giovincello.
Io non ho preso nulla da te.
Istintivo e passionale quanto la tuà metà.
Agitato e irrequieto quanto tu tranquillo e rassicurante.
Avevi paura di una cosa sola: la morte, forse l’unico momento che ti ha visto debole, sconfitto, non più tranquillo.
Te ne sei andato con vicino le persone per le quali avevi vissuto, a stringerti la mano nodosa , stanca e tremante.
Te ne sei andato con la tristezza di non averci lasciato nulla secondo te.
A me hai lasciato molto.
Moltissimo.
Una cassaforte piena di vere ricchezze.
Di quelle che non si perdono, non si inflazionano.
L’onestà.
la sobrietà.
La gioia di vivere.
La determinazione.
Il rispetto.
Non devo neppure fare manutenzione ai beni che mi hai lasciato.
Nessun muro da stuccare.
“vivi come se non dovessi mai morire”
“se vuoi capire soffrirai, quanto vivrai tranquillo nel suo contrario”
“non avere mai paura di niente”
“il destino è anche e soprattutto una tua costruzione”
“vivi nel giusto anche sapendo che non c’è giustizia”

E poi alla fine, un secondo prima che chiudessi i tuoi occhi grigio azzurri per sempre, la tua mano piena di nodi contadini si è chiusa forte sul mio braccio, attirandomi a te, spaventandomi un pò.

“adesso tocca a te”.

Francesco.

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