martedì 20 dicembre 2011

Azzurro turchino





In una parola.
Eri bella.
Per me eri proprio bella.
Dalla testa ai piedi.
Bella da emozionarmi sempre, quando ti vedevo.
I tuoi occhi.
Azzurro turchino.
I capelli sempre ben raccolti, ordinati.
La tua sobria ma indiscutibile eleganza.
Il tuo sorriso.
I tuoi lineamenti dolci quanto ben definiti.
Il tuo portamento aggraziato.
Gentile.
La tua pacatezza.
La tua femminilità.
Era sempre una forte emozione.
E ammetto che nella mia precoce scoperta della sensualità, eri proprio bella in tutto.
Mi perdevo tra lo sguardo dei tuoi occhi e il tono della tua voce carezzevole.
Dall’osservare le dita affusolate delle tue mani.
Alla perfetta scolpitura delle tue gambe.
Dentro a caviglie snelle raccolte e perfettamente raccordate con i tacchi delle tue calzature.

Ero piccolo.
E tu la mia maestra delle elementari.

Cinque classi in una, in quel piccolo borgo medioevale.
Tra piccoli geni e genetiche alterate.
Ma quanto eri bella, per me.
Ero innamorato e lo capisco solo adesso.
Sei stata il primo amore.
Il primo batticuore, la prima vera emozione.
Sarà che eri diversa da tutte quelle donne vestite di nero.
Curve e cupe, tristi e mascoline.
Sarà che in te la mia sensibilità trovava la sua casa.
La sua strada per la femminilità.
Il suo femminile ideale.
Ideologico.
Sentito e provato.
Emozionato e vissuto.
Eri la donna che sognavo di avere al fianco.
Una volta divenuto grande.
Dolce, intelligente, femminile, bella e affidabile.
Eri la moglie del medico condotto del paese.
Una razza a parte rispetto a noi villani.
Ma io ero innamorato di te.

Allora spogliavo le mie coetanee.
Ma gli sguardi sotto la scrivania, a contemplare le tue bellissime gambe erano ben altra emozione.
Beata innocenza.
Perché lo era.
Semplice innocenza.
L’innocenza di un batticuore naturale e inspiegabile.
L’innocenza che non poteva che ammirare e contemplare.
Eri la mia donna ideale.
Quella che alla fine non ho mai incontrato.
E io, …….. anche io ero qualcosa di speciale per te.
Un alunno anomalo, per quel luogo.
Per quella cultura, per quel luogo.
Eri tanto affezionata a me.
Ma sempre equa nel giudizio.
Ma l’affetto l’ho sentito.
Tutto.
Quanto ho sentito la tua stima.
L’orgoglio che un educatore prova quando l’allievo va ben oltre la normale “prestazione”.
Che strani pensieri vero?
Eppure era così.
Forse un poco innamorati tutti e due, l’uno dell’altra, lasciamelo credere.

Di sentimenti veri.
Innocenti quanto davvero sentiti.

Eri una maestra speciale.
E non solo per me.
Non ho mai capito perché insieme a tuo marito avevate fatto quella scelta.
Di vivere in quel borgo medioevale.
Un borgo contadino.
Povero di tutto.
Per voi colti, di cultura sopra a tutto.
Quattro chilometri di impercorribile sterrato per raggiungerlo.
Chissà perché.
E tu eri una maestra speciale oltre che una splendida donna.
Una volta alla settimana, in ogni stagione, ci portavi fuori.
Fuori in mezzo alla natura, spiegandocela dal vivo.
Insegnandoci ad impararla.
Non bastava per futuri contadini saper far di conto o leggere.
Era necessario conoscere le stagioni, le fioriture, il colore della terra.
Lo sbocciare delle viole e le tane invernali delle ranocchie.
Saper leggere i segnali del cielo.
Le sue nuvole, il vento, il nitido e l’opaco dell’orizzonte.
Mi hai insegnato ad imparare.
Prima di qualsiasi altro.
Ed ero innamorato di te.

Ero piccolo.
E un giorno un’automobile mi ha portato via per sempre, verso la città.

Verso il mio destino.
Dove tu non c’eri più.
Al tuo posto un piccolo nano idiota.
Che menava le mani.
Che distingueva non capacità o nobiltà d’animo ma solo ricchezza e povertà.
Che valutava in basa a caste, a lobbie, a personali interessi, non a naturali intelligenze.
Cara maestra, me la sono cavata lo stesso.
Sono sopravvissuto al contrario della tua missione, del tuo insegnamento.
Sono sopravvissuto al disimparare ad imparare.
Quante volte lo sguardo volava fuori dalle finestre.
A cercarti.
Mentre il piccolo nano urlava come un forsennato le nostre incapacità.
Rosso in faccia di collera come il collo di un tacchino sgozzato.
Me la sono cavata lo stesso.
Non ho dimenticato i tuoi insegnamenti.
Anche se ero piccolo.
E ho dovuto sopravvivere alla stupidità istituzionalizzata di una scuola della diversità.
La scuola della rabbia e dell’impotenza.
Dei favoritismi e delle ingiustizie.
Dell’arroganza e dell’odio.
Della discriminazione e del pregiudizio.

Fino a diventare grande.
E a sopravvivere anche nella vita, a una scuola diversa dalla tua quanto identica a quella successiva.

Sono tornato poche volte al borgo.
Veramente poche.
Sono tornato a seppellire i miei genitori e a visitarne le steli ogni tanto.
Non ho fatto il contadino, mi è toccato di peggio.
E il vecchio borgo non l’ho più sentito la mia casa.
Mi sono sempre sentito un estraneo le poche volte che sono passato di lì.
Tranne una volta, non moltissimo tempo fa, forse solo l’anno passato.
C’era una festa e una messa, e io ero davanti al sagrato della chiesa.
A guardarmi intorno ricordando i tanti giochi fatti in quei luoghi con i miei piccoli amici di un tempo.
Aspettavo una persona per tornare a casa.
Finalmente.
La messa era finita e ho cominciato a cercarla con lo sguardo tra la folla che usciva dall’abbazia.
Fino a che ho scorto una figura.
Minuta.
Con un portamento aggraziato che con decisione mi si faceva incontro.
Eri tu.
Eri proprio tu, la mia maestra, il mio primo amore.
“Francesco!”
Mi hai abbracciato, teneramente, carezzandomi il viso.
“Sono felice di poterti rivedere ancora una volta, l’ultima, perché tra poco me ne andrò”.
“Sono felice davvero”.

Con qualche goccia di rugiada, come quelle che mi avevi insegnato ad osservare sui petali dei fiori.
Nei  tuoi uguali occhi azzurro turchino.


FranzK.

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