sabato 13 febbraio 2010

Il cappello nero.




 [http://www.youtube.com/watch?v=MSZbNLZOE-Y&feature=related]

Era ormai vicino al mezzo secolo di età, mentre gli eventi storici incominciavano rapidamente a degradare.
Il canto dei Nibelunghi si apprestava a produrre echi potenti e incontenibili.
E, come adesso, anche allora, era  difficile non stare con il più forte.
Anche sapendo che non era un giusto.
E, al contrario, ancora più difficile credere in qualcosa che è tanto vero, quanto lo è per pochi.
Anche se è vero nell’assoluto.
È la tipica situazione dove un uomo prova a giocarsi a dadi.
Vincendo o perdendo sempre e solo con se stesso.

Ma lui non era nato giocatore.
Avrebbe sempre vinto in quel caso, data la dotazione naturale della massa grigia conservata nel suo cranio.
Un uomo di doti intellettuali davvero rare.
Viveva in collina e mondava la vite.
Uno strano quanto semplice  ragazzo sempre sorridente con tutti.
Con in testa una irremovibile convinzione: la Libertà.

Gli eventi rotolarono giù dalla china in davvero poco tempo, da lì a un po'.
Gli obblighi divennero sempre più pressanti.
I controlli più fitti.
Mai più risate, solo sorrisi di spaventata convenienza.
Le porte sempre più chiuse.
La necessità di particolari “carte” e particolari “metalli” nelle tasche  sempre più pressante.
Si intravedeva la guerra poco più avanti.

Ma lui amava la vigna e la Libertà.
Il respiro profondo.
Le risate e i canti all'unisono.
Aveva un sogno conficcato nella mente.
Il sogno della pacata giustizia.
Della gioia e della Libertà per tutti.
Aveva un sogno così forte che sembrava bastare contro gli incubi globalizzati di quel tempo.

Ma su per le vigne le cose erano cambiate.
Tutti lavoravano a testa bassa.
Nessuna allegria.
Nessun canto.
Quasi neppure più una parola.
La guerra aveva quasi la forma di un acino, tanto era nell’aria.

Tornò verso casa con la scusa di un malore e legati insieme pochi stracci partì.
Nessuno seppe mai per quei vent’anni che passarono di sua assenza, che fine avesse mai fatto.
Lo davano disperso in qualche sperduto alpeggio appena oltre il confine occidentale.
Non sbagliavano di molto, anche se era del suo mito che si parlava, non di lui.
Per lui erano passati secoli, non anni.
Tanto che il cuore, negli ultimi tempi, aveva cominciato a mostrare i segni di una sofferenza portata troppo a lungo.
Come tutto il resto del suo corpo.
Forse era giunto il momento per un’altra decisione.

Sentiva che le forze erano arrivate all’esaurimento.
Aveva sperato, tutti quegli anni lui, non combattuto.
Come avrebbe potuto combattere uno come lui.
Non aveva l’animo per sopprimere una formica.
Come avrebbe potuto sparare per uccidere un uomo?
La Libertà …..
La sua Libertà …… la sua dea.
Che nella sua illusione di poterla essere per tutti, non poteva né accettare né contemplare la morte di qualcuno.

Si racconta ancora adesso, nelle sere d’estate quando gli anziani si ritrovano sotto gli archi di mattoni degli ingressi dei vecchi cortili a prendere un po' di fresco, di quel lungo, infinito, incredibile giorno.
Erano tutti fuori, chi nei campi chi nelle vigne, uomini e donne.
Un giorno di inizio primavera, anche se il bel sole non impediva il pizzicare di un freddo ancora molto pungente.
Due ragazzine aiutavano la nonna nei lavori dell’orto, nei campi che aprivano l’orizzonte verso la valle del fiume.
Erano allegre e scanzonate.
Una donna di mezza età, poco lontano da lì, sbrigava, appollaiata su un covone di fieno, faccende meno faticose.
Sulla collina, in mezzo ai filari due uomini vangavano la terra ancora indurita dalla gelata notturna.
Se avessero girato lo sguardo verso sud avrebbero potuto scorgere, in lontananza, le compagne indaffarate nella semina stagionale.
Appena dentro al paese, nel cortile, una altra anziana e ricurva figura femminile badava ai bimbi più piccoli, sbrigando anche qualche faccenda nella stalla.

Si ritrovarono intorno al tavolo per la cena e tutti quella sera avevano una cosa speciale da raccontare.
Tutti erano inquieti per un particolare accadimento che mai avrebbero potuto immaginare comune.
E nessuno di loro fino quasi alla fine del desinare ebbe il coraggio, per primo, di schiudere il proprio groppo.
Alla fine fu la donna più vecchia che parlò:
”oggi, mentre ero in cortile si è affacciato un tipo strano al portone, tutto infagottato dentro un pastrano lungo e sporco;
si è fermato senza alzare lo sguardo da sotto il cappello e dopo averci osservato per un poco è scomparso ……. per un momento ho pensato fosse lui …… il mio ……..”
Le storie di tutti esplosero in una ressa di voci sempre più preoccupate.
Era passato da tutti l’uomo nero e sconosciuto e da tutti si era fatto notare e tutti si era soffermato a guardare.
Chi poteva essere?
C’era la guerra e quella figura, non era contenuta dentro quella guerra.
Era di una altra forse, una differente, cosa era venuta a fare lì?

Quando si arriva a questo punto, il racconto degli anziani seduti sotto gli archi di mattoni, si fa molto sottovoce.
E si stringono vicini con le sedie.
Perché potrebbe accadere di sentire ancora l’urlo del treno in corsa ……..
Poco prima  di sentire l’urlo della vecchia madre che invoca il suo nome, un istante prima, con le mani strette sul ventre.
Poco dopo che alla fine si potesse comprendere tutto.
Quando bussò all’uscio un messo del comune.

Con in mano i brandelli raccolti da sotto un treno, di un cappello nero.
I brandelli della Libertà.

Davvero poche settimane prima della fine della guerra.

Franz.K

Nessun commento:

Posta un commento