lunedì 16 gennaio 2012

La solitudine.





Meglio soli che mal accompagnati.
Così recita un vecchio detto.
Mi ricorda “sposa bagnata sposa fortunata”.
Un modo per trasformare in positivo anche ciò che non è.

E al di là di tutte le psicologie.
Mi chiedo cos’è.
E quanta ne esiste.
Nel viverla come povertà o ricchezza.

Nei suicidi disperati.
O nel “meglio soli che mal accompagnati”.
Nella sua, tutto sommato “convenienza”.
O nella tragedia di un silenzio.

La solitudine è solo comunicazione?
Ti basta un social network?
Perché così in tanti lì?
Ad aspettare anche solo una notifica, una imprevista chat.

La solitudine è metafisica di certo.
Credo nella sua essenza.
E puoi risolvere nel “te stesso”.
Quanto non riuscirne a venire fuori con migliaia di “amici”.

Leggo che può essere opportunità.
Che basta darsi uno scopo alla fine.
Non tanto per vincerla.
Ma anche solo per viverla.

Disposti a stare insieme, ma soli.
Nell’insieme che rende sufficiente una lettera.
Nel solo che pretende spazi solo personali.
Insieme ma solo fino a un certo punto.

Non so, io ho un’idea mia.
Riguardo la solitudine.
Una stupida idea.
Che si risolve nella nostra natura.

Che ci vuole nascere e morire da soli.
E anche vivere, senza pretendere a tutti i costi la sua assenza.
Ma che nel vivere ci conduce alla socialità.
Per cercare di superarla.

Nel breve tratto del vivere.
Solo lì.
L’inizio e la fine sono suoi, gli appartengono.
Il mezzo, al di là di qualsiasi ragione, ne cerca quantomeno le ragioni, se non la soluzione.

Così abbiamo molti “amici”.
Ne cerchiamo a dismisura.
Cercando in loro forse solo una cosa.
L’”appartenenza”.

Ben oltre la similitudine.
Molto oltre, la compagnia, il non silenzio.
Oltre gli schemi.
Ben oltre progetti condivisibili.

L’appartenenza è molto complessa.
Ed è trasversale anche ai sentimenti.
Alle sole necessità riproduttive.
Alla socialità necessaria.

L’appartenenza non presuppone la sopportazione.
Non limita il tempo.
È il tempo.
Non farlo trascorrere.

L’appartenenza è radice comune.
Non necessariamente valori comini.
Va oltre il dire “un mio vero amico”.
Distinguendolo da un semplice “conoscente”.

L’appartenenza è percezione di un “tutto comune”.
Non la si può cercare.
Al massimo incontrarla, non per statistica ma forse solo per le imponderabili vie del “noi”.
E dentro quella “stranezza” ti senti migliore.

Solo nel meglio.
Quindi non più solo.
È un pieno riempito.
Non un vuoto colmato.

È di più.
Di quello che ti sarebbe comunque bastato.
È il di più del pieno che può bastare in un equilibrio solo, personale.
Un pieno straboccante.

Una felice prigione senza sbarre.
L’appartenenza.
Allora la comunicazione diviene crescita, formazione.
Il tempo relativo.
Il parlarsi senza fine.
Accettando il cambiamento.
Che non sarà mai spersonalizzazione.
Ma un tuo meglio che devi affrontare, anche cambiandoti.

Il peso della solitudine non esiste.
Almeno se non trovi necessità di pesarlo.
Di fartelo pesare.
I palliativi sono molti.

Nel nostro tempo semplici.
Di facile accessibilità.
Ma sono solo palliativi.
Non soluzioni.

Almeno fino a qui.
A quello che sappiamo di noi.
Come centro della nostra vita.
E della in vita in generale.

La non solitudine forse è solo un dono.
Per pochi.
L’appartenenza molto di più.
Nella sua virtù di straboccare un pieno già colmo.

Non colmare un vuoto.

FranzK.



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