Sembra
strano stasera.
Siamo qui a
pensare di poter dimenticare, nonostante i bicchieri siano ancora sulla tavola,
nonostante il mio desiderato stato di sobrietà mi porti a negare l’assaggio
degli ultimi pregiati distillati.
E con essi ed il loro consumo, qualsiasi possibilità di omissione, sepoltura, oblio.
Del conscio
e dell’inconscio.
Non posso
dimenticare, non appartiene sfortunatamente alla mia, considerata dai più, bizzarra natura.
(Personalmente la sento solo una natura del tutto normale, per quanto valgano le autodiagnosi.)
Avrei voluto comunque poterlo fare, il dimenticare, in più di mille occasioni, circostanze, contingenze
e situazioni.
Belle o
brutte.
Non posso e
basta e, in fondo, mi rende solo uno stato di serena allegria, il ricordare.
Decisamente in
contrasto con la tristezza che mi arreca la memoria corta ed eccessivamente lobotomizzata
del tempo corrente e delle sue troppo in fretta dimenticate, disgraziate novelle
quotidiane.
La storia
che tratto qui, mal si adatta allo sfuggevole di una semplice gazzetta e dei
suoi conseguenti commenti già affetti da amnesia il giorno dopo se non il giorno prima.
Perché questa non è una
semplice storia dell'ultima guerra o dell’ultima sconvolgente
quanto sfuggevole alla memoria, notizia noir.
All'apparenza
può sembrare anche tale ma non lo è affatto.
E forse è
proprio questa la sua principale prerogativa, essenza.
Di come un
qualsiasi potenziale “nero”, “buio” e “pericoloso” possa divenire, non solo un
“chiaro positivo” ma addirittura un sentimento: il più puro forse tra tutti.
Mi sembra strano
anche oggi, che provo a narrarla con la mia scarsa, quanto anche molto
arrugginita e per molto tempo abbandonata, tecnica scrittoria.
Strano
quanto sia allegro anche questo.
Perché per un istante non confonde i miei
pensieri rispetto a quanto leggo quasi tutti i giorni sugli “organi ufficiali”
dell’informazione.
Alla
medicina somministrata quotidianamente.
Inquietante “rimedio”
per dar vita a stereotipate conversazioni che aiutano a “passare il tempo”,
quasi ne avessimo una impellente, inderogabile necessità.
E non parlo
di informazione condizionata, sarebbe necessario averne le prove per
dichiararlo, ma solo molto superficiale, mai contagiata da un “umano”.
Contagiata e afflitta purtroppo solo da una ben celata astrazione, da un immediato sfuggevole
stupore, se non, addirittura, una sorta di rapido consumo isterico al quale può seguire solo il limbo cerebrale.
So di aver
espresso tre volte lo stesso concetto e forse male in ogni caso ma non è più tempo di perdere la strada,
quindi procediamo.
A questo
punto come interviene un titolo così audace?
Il
vendicatore solitario dei Navigli: chi è?
Cosa mai è
accaduto, quale è la storia?
Ebbene essa è semplice e
priva di stupore, almeno di quello descritto in precedenza, e con quel che
resta di tanta ruggine provo a scriverla.
Qui, nel
bianco digitale, pubblico quanto privo di qualsiasi secondo fine, legato
semplicemente al valore personale di “esistere”, della sua libertà di poterlo
fare e di poterlo fare magari "a modo mio".
Senza scopo
direbbe qualcuno, con l’unico vero scopo direbbero pochi, ed è sempre a questi
ultimi che mi rivolgo, è a loro in cui credo.
Ed è per
loro che lo faccio, senza prezzo e senza scuse, quanto senza alcuna necessità
di dominio di una scena, né tanto meno di sete di fama o successo.
E solo loro,
quei pochi, ne intuiscono, probabilmente, il senso compiuto.
Un fine
inverno di qualche tempo fa, non molto lontano da quello odierno.
Un fine
inverno che ancora non apriva le porte ad un convincente inizio della
primavera.
La locazione geografica della città è
semplice da intuire, quanto non lo è la situazione.
Un uomo
corpulento, di statura non indifferente e dalla forza fisica proporzionata alla
sua anatomia.
Un uomo con
tanti grattacapi.
Una rosa, in
un vaso.
Una rosa di
fine inverno.
Rossa.
In un
semplice vaso.
In mezzo ad
altri vasi e a piante sempreverdi della penisola di circoscrizione dei tavoli
esterni di un locale.
Quanti
pensieri per quella strana figura d’uomo, quella notte.
Quante
stranissime preoccupazioni.
Almeno senza
senso quanto il mio scrivere.
Non si può
dire che l’avesse incontrata.
Ma semplicemente
raccolta.
Non si
sarebbe potuto fare in altro modo.
Che
raccoglierla.
E non era da
lui.
Aveva già
troppi problemi con se stesso.
Troppi grattacapi.
Anche se ad
essi aveva trovato quantomeno un rimedio.
Magari non
proprio ortodosso.
Ma
funzionale almeno.
E non
avrebbe potuto che raccoglierla.
In quelle
misere sporche vesti.
E poi?
Cosa ne
avrebbe fatto di lei?
Con tutti i
grattacapi che già aveva ed annessi strani rimedi.
Si ritrovò
spiazzato, come un bimbo davanti ad un algoritmo troppo complesso.
Devi
affidarti al cuore, all'intuizione, alle emozioni pensò.
E non era da
lui pensare in questo modo.
Con tutto il
pericolo che possono produrre poi le emozioni.
Un pericolo
incalcolabile.
Ma ci pensò
con le emozioni.
E la
raccolse.
Ne accettò
senza alcuna logica le conseguenze.
Erano
semplici le conseguenze.
Quanto
destrutturanti.
Si poteva
solo raccoglierla, lì per lì …
Ma quel "lì
per lì" non sarebbe mai bastato, lo sapeva in fondo, non sarebbe mai stato
sufficiente.
Era
necessario prendersene cura.
Molto, molto
di più che semplicemente raccoglierla.
Era
necessario ospitarla, rivestirla, lavarla, sfamarla …
Prendersene
cura in tutti gli aspetti che questa azione determina.
Ospitarla le
apparve come la cosa più necessaria, quanto più difficile.
Perché
avrebbe dovuto convivere, anche lei, con i suoi grattacapi e con gli strani
rimedi.
Ma ormai era
fatta.
L’azione del
raccoglierla, senza un sensato motivo che non fosse quella tremenda emozione,
non poteva più escludere la reazione a catena di tutti gli altri doveri
correlati.
E, come si sa,le
emozioni vanno oltre.
Molto oltre
il "poco sensato" di averle accolte.
Ti
travolgono.
O forse
semplicemente ti cambiano.
Ti
scaraventano in una dimensione diversa.
E, per un
istante …
Perché non
dura più di un istante …
In quella
dimensione sei fin contento di esserci finito.
Ed è la
fine.
O l’inizio.
Dipende.
In quel
caso, nel suo caso, cominciò qualcosa.
E anche per
chi non ha grattacapi e stranissimi rimedi.
Se mai ha
provato, sono certo che può comprende.
La raccolse
e la accolse, la rivestì, la sfamò, la lavò, le offrì tutto ciò che aveva.
E,
nonostante questo, mancava ancora qualcosa.
Sarebbe
sempre mancato qualcosa.
Da quel punto
in poi almeno.
Da quel "lì per lì" in poi.
Era notte,
una strana notte di fine inverno che ancora non apriva con decisione le porte ad un
primavera.
Lei dormiva.
Finalmente
in un letto.
Profumato di
lenzuola pulite.
Caldo,
finalmente.
Sicuro e
rassicurante.
Ma per lui
non era sufficiente.
Non bastava,
mancava qualcosa.
Sarebbe
sempre mancato qualcosa oramai.
Una certezza
che, per quanto ossessiva, lo aveva cambiato.
E quel
cambiamento era travolgente.
Indossò il
pesante soprabito e il cappello a larghe falde.
La notte era
fredda fuori.
E i
grattacapi non erano di certo passati.
Sopiti
magari.
Ma non
passati, non sarebbero mai passati.
Le stradine
in selciato della città erano lucide e bagnate di nebbia.
Abbastanza
deserte a quell'ora.
Deserte a
sufficienza per riuscire a passare un po’ inosservato.
Nel suo
procedere un po’ piegato in due.
Per
sopportare meglio il freddo umido e i grattacapi.
E c'era una
rosa che lo aspettava.
Rossa.
In un vaso
tra molti sempreverdi.
Una rosa
d’inverno che aveva già aperto le porte alla primavera.
Come lui.
Uguale.
Aveva ceduto
anche lei all'emozione.
Senza senso
alcuno.
Di una
fioritura anticipata.
E a volte le
emozioni vanno oltre.
Molto oltre
il già poco sensato di averle accolte.
Vissute.
Ti
travolgono.
O forse
semplicemente ti cambiano.
Ti scaraventano
in una dimensione diversa.
E anche la
rosa aveva ceduto ad un emozione quanto lui.
Anche se lei
aveva un proprietario.
Anche delle
sue emozioni senza senso.
L’uomo con i
grattacapi lo sapeva ma in quel momento voleva ignorarlo.
In quel
momento aveva semplicemente trovato quello che gli mancava.
Almeno in
quel momento.
Si intrufolò
tra i sempreverdi.
Maldestramente.
Come maldestro
era il suo solito fare.
Creando
disordine, rumore e danno.
Il locale, a
quell'ora, era chiuso.
Ma non
vuoto.
All'interno
consumavano la cena due amanti.
Una cena
intima.
La cena del
proprietario del locale, un uomo con il tastevin
Un uomo che
conosceva il tastevin
Del quale ne
era davvero degno.
Con quel che
ne consegue.
Con tutto
l’umano che ne consegue.
Con tutta la
cultura e l’intelligenza che ne deriva.
Che fermenta
quando conosci appieno un fermentare miracoloso della natura.
E conoscere
è cultura e rispetto, è rispetto e tolleranza.
Un uomo con
il tastevin, se lo porta perché ne è degno, ne ha da vendere di questa
rarissima merce.
Una cena di
un uomo con il tastevin insieme con il suo amore.
Che aveva
finito il suo lavoro e lo aveva raggiunto.
Come sempre.
Nelle tarde
ore con il locale chiuso e finalmente a disposizione solo per loro.
Il rumore
prodotto dall'uomo con i grattacapi non poteva non essere udito.
E si sa che
la città, quella città, di notte ha i suoi rischi.
Normalmente
si chiamano le forze dell’ordine.
Lo avrebbe
fatto chiunque.
Ma non
l’uomo con il tastevin.
Forse non
era semplicemente nella sua natura.
Sicuramente
non nella sua cultura.
Uscì.
E vide
questa figura scura, nello scuro della notte.
Una figura
corpulenta, alta e scura.
Con il vaso
contenete la rosa in mano.
Pronto ad
andarsene.
“Buonasera”
“come va”?
“Piacere, mi
chiamo …… “disse l’uomo con il tastevin, mentre allungava la mano per
presentarsi.
“E
….perdoni, cosa fa con la mia rosa d’inverno in mano”? .... sorridendo.
I grattacapi
dell’uomo che si era appropriato della rosa d’inverno peggiorarono all'istante.
Porse la
mano per poi ritrarla d’improvviso.
Posò a terra
il vaso.
Si levò il
cappello.
Chiuse forte
in un pugno le dita della mano destra.
La alzò al
cielo e si percosse con il pugno, e con molta violenza, quattro volte in testa.
“Io sono il
vendicatore solitario dei Navigli!” gridò.
“Piacere di
conoscerla” rispose l’uomo con il tastevin.
“Può farmi
la cortesia di rimettere la rosa al suo posto e sistemare il disastro che ha
fatto”?
“La rosa è
per la mia signora” rispose l’uomo con i grattacapi, l’ho appena raccolta dalla
strada e accolta nella mia casa.
E mancava
qualcosa.
Questa.
Una rosa
rossa d’inverno.
Che aveva
già aperto le porte alla primavera.
E adesso è
notte ma mi mancava, perché mancherà sempre qualcosa.
Le chiedo
scusa, comprendo quanto mi chiede, ma mi mancava e spero che anche lei
comprenda”.
L’uomo con
il tastevin sorrise ancora e rientrò dalla sua amata per finire la cena.
L’uomo con i
grattacapi si mise al lavoro per risistemare tutto e ridare alla rosa il suo
posto.
E se ne
andò.
Per le
stradine in selciato lucide e bagnate di nebbia.
Ormai
completamente deserte.
Arrivò a
casa.
E si sentì
stranamente sereno.
Qualcosa era
cambiato.
Per sempre.
Poteva
contemplare la sua emozione.
La
contemplò, vegliandone il sonno tutta la notte.
In fondo sarebbe
in ogni caso mancato qualcosa sempre.
Da lì in
poi.
Sempre.
E l’uomo con
i grattacapi sorrise anche lui, dopo tanto, tantissimo tempo.
L’indomani, nel locale dell’uomo con il tastevin, giunse un corriere.
“C’è un
pacco per lei, una firma per favore”.
Conteneva un
bellissimo dono.
Il mittente
era l’uomo con i grattacapi.
Un dono e un
biglietto di scuse.
Se passate
da li.
Qualche
volta.
Entrate nel
locale.
Ne vale la
pena.
Li trovate
quasi sempre.
Una coppia
di magnifici amanti composta da un uomo con i grattacapi e una bellissima donna.
L’uomo con
un po’ meno di grattacapi e la donna senza più alcuna necessità di essere
accolta.
A godere,
insieme e con sobrietà, di pregiati distillati.
Serviti con
cura, classe e affetto dall'uomo con il tastevin.
FranzK.
Tratto liberamente da una storia vera.