Notte fonda.
Tutta notte.
La prima notte senza riposo.
Se penso indietro, in un tempo che non ha tempo, comprendo che il
“processo a nudo” di stasera ha forzato la fine.
Forse giusta, forse no, forse quello che sarebbe stato comunque, ma l’ha
forzata.
Non era negli altri che avrebbero potuto cercare risposte.
Ma la sua di ieri notte, così difesa a spada tratta ancora stasera,
ancora da lei e dai “giudici supremi” che hanno scelto, l’ha trovato solo.
Ancora solo.
Lucido e controverso, ma solo, sul banco degli imputati.
Non so se i due “maestri” che avevano scelto hanno compreso qualcosa, ma
li hanno scelti loro e non avrebbero che
potuto accettarne il verdetto.
Cosa era poi lo scandalo?
Quale la tragica imputazione?
Il suo delitto?
Quei vent’anni che potevano fare di lui un padre?
O lo scandalo di un vero amore imprevisto?
Insostenibile agli occhi e alle menti di chi l’amore non l’aveva mai
avuto?
Perché sul banco degli imputati era solo.
Solo e nudo.
Pronto per un verdetto che ha visto lei ignava protagonista.
Non al suo fianco.
Ma in una platea sguarnita.
Deserta se non per la sua presenza.
Come se quell’amore pronto al macello del raziocinio l’avessi inventato
lui da solo.
Generato e vissuto da solo.
Solo suo, nella sua solitudine.
Forzare la fine per l’insostenibilità della verità.
Era fredda, gelida quella seduta dedicata al condannato.
Era fredda ancora di più nel contemplare la sua solitaria presenza nella
platea.
Si aspettava di averla al fianco.
Non a difendere ma a sostenere il loro comune tremito almeno.
Di quel processo “a nudo”.
Deciso insieme, vissuto da solo.
Era difficile prendere una decisione.
Avevano scelto quella di un processo.
Scegliendone i giudici.
Ognuno il suo.
Quello di lei, donna, quello di lui,uomo, sostanzialmente opposti,
sostanzialmente uguali.
Giusti, sbagliati?
Direi giusti nella media, sbagliati per l’editto, forse per l’incarico.
Sbagliati per lui, quantomeno, che si è presentato nudo, al processo.
Giusti nella media, sbagliati nella specifica materia, ancora una volta.
Perché è sbagliato affidarsi ed affidare una decisione a chi non
conosce.
Dov’era l’esperto di “loro”?
Avrebbero dovuto proseguire insieme e basta ,forse avrebbero dovuto,
alla fine, avere il coraggio, la pazienza, la follia ….. o la semplice ragione
di andare fino in fondo a quel tunnel.
Una cosa insieme l’hanno fatta: hanno sbagliato per quel processo.
Lui forse molto più di lei.
Ma i giudici, per me che ho presenziato come unico ufficiale, non potrò
mai dimenticarli.
I GIUDICI
Quello di lui è un uomo nuovo e vecchio, vecchio dentro intendo, pratico
di “pratica”.
Un uomo.
La sua proposizione era quella di specchiarsi in lui, tendenzialmente al
contrario, non necessariamente, ma tendenzialmente……nessuno al mondo, in realtà,avrebbe
mai potuto convincerlo, nemmeno per “presunta” superiorità, di ciò che non era.
Avrebbe dovuto confrontarsi, comunque, con le sue tante vite, tante
persone, tante verità inseguite e trovate, tanto, tanto troppo.
Cinquant’anni circa, il suo giudice, conoscitore di vite, di uomini,
“praticamente” di molte vite, forse non del “vivere”.
Quello di lei è una donna nuova e vecchia, vecchia dentro intendo.
Una donna.
Non so cosa si aspettavi da lei.
L’aveva scelta lei, non mi è dato di sapere.
Buona persona, comunque, ventisette anni di sofferenze ed un futuro
pieno di speranze.
Educatrice presso un orfanotrofio di una grande città.
Sua convivente.
LA SENTENZA
Unanime, gelida, razionale, logica, pratica, inattaccabile soprattutto
perché sostenuta anche da lei che al processo si era presentata ben vestita e
in platea, non al suo fianco.
Quindi vera, si presume .........
Lui, per la prima volta nella vita, nudo, tremante, indifeso, senza
controllo della situazione, senza forzare controlli.
Busta 1 : la GIUSTA DISTANZA !
Busta 2 : la GIUSTA DISTANZA !
Busta 3 (dalla platea) : la GIUSTA
DISTANZA !
No era pronto per l’unanimità, sperava in lei, ma sperava e basta,
sperava che qualcosa la riportasse alla
verità del sentire, a quella verità che avevano vissuto tutti i giorni, tutte
le notti, quella verità che non si era mai fermata davanti alle parole.
Il sangue è sgorgato copioso ma, al dolore, lui era preparato.
Non si è neppure difeso, non avevo preparato alcuna difesa, l’avesse
fatto temo non si sarebbe difeso comunque: nudità e sangue erano nell’aria.
Perché poi lei non hai dormito, a proposito?
Per il solito, consueto dispiacere?
Per il male che aveva ricevuto lui, o per il presunto bene che aspettava
lei?
La “giusta distanza” come sentenza non mi è parsa neppure molto
azzeccata.
Da unico ufficiale presente.
L’ho trovata poco nobile per la loro nobiltà, aspettavo altro, l’originalità
di un editto che potesse almeno far storia, onorando quella storia.
Da unico ufficiale presente l’ho
trovata solo mediocre, cattiva e ignorante.
Perché?
Perché “la giusta distanza” non ha misura, perché nessuno saprebbe
stabilirla, perché, nel migliore dei casi vuole dire distante e basta.
Nel peggiore, è ancora peggio: prendi il peggio in cambio del tuo
meglio, nel caso esso possa servire secondo la discrezione di quanto, quando e
come del tuo creditore.
Sei debitore verso te stesso, se non lo fai.
Al meglio di lui nessuno ha nemmeno pensato, e anche solo come ufficiale
navigato quanto impassibile, mi bastava pensasse qualcuno.
Mi bastava ci pensassi lei.
Al loro comune bene.
Ma non è accaduto.
Il preteso e convinto bene di lei era un altro, era un bene che prevedeva
solo previsioni.
Il tipico bene del mondo degli uomini.
Perché il processo allora, mi sono chiesto?
Il suo bene, il suo, almeno, punto di vista a riguardo del bene, mi è
parso fosse di secondo ordine.
Infatti, di fronte al tema l’editto dei giudici fu unanime: “il fatto
non sussiste”.
Ma adesso toccava a me.
Imputato alzatevi!
La giuria, i giudici hanno sentenziato:
Vi prego piagnucolò quel pover’uomo.
Vi prego signori giudici.
Signora inesistente giuria.
Non sia già ergastolo allora ma la morte.
Ma tutti lucidi e convinti, anche lei ……. dalla platea degli ignavi.
Tutti, tranne me, che non riuscivo ad ignorare le lacrime disperate di
quell’uomo.
Tutti, in uno strano sinistro coro:
LA GIUSTA DISTANZA ….. A VITA.
Il martelletto ha schioccato un colpo secco, mi è rimbombato dentro, la
folla assente ha applaudito ed applaudiva mentre uscivo anch’io tremante,
ferito, sanguinante, umiliato ……. sorreggendo allo stesso modo tremante,
ferita, sanguinante e umiliata quell’anima disperata.
Mentre lei si complimentava con il giudice di lui, illudendosi di essere
libera, finalmente, serena …….
Il giudice di lei sbirciava compiaciuta la sconfitta di quell’uomo.
Contemplando, raggiante la sua vittoria, i suoi schemi avevano
funzionato, implacabili, perfetti:
la giustizia dell’”uomo scimmia” aveva vinto ancora una volta.
La vita, la sua sentenza, l’ha decretò tanto, tanto tempo dopo ……. al solito.
PROLOGO AL CONTRARIO.
Aveva inquietato quella telefonata durante la cena prima del processo …….
riportando da là terrestri segnali telecomandati…..
L’aveva inquietato vederla tentare il vomito, mentre la tensione sul suo
corpo le spezzava i muscoli ……..
Prese la mano calda di lui permettendo di appoggiarsi sulla sua pelle
nuda …….
La nausea passò veloce, e il volto massacrato di ferite di lei riprese
subito colore.
Lui le aveva insegnato la felicità.
Anche nella semplicità di un buon cibo accompagnato da ottimo vino
rosso, nella giusta quantità.
Le aveva insegnato ad amare la vita.
Nel meglio della sua semplicità.
Nelle passeggiate al chiaro di luna.
Nell’ascolto del gracidare delle ranocchie, ai bordi di quel fiume scuro
ma pacifico.
Le aveva insegnato a non incidere più graffiti sul suo volto.
Prima che arrivassero gli uomini.
Con lunghi impermeabili bui.
Con mille bit al secondo, con lunghe dettagliate descrizioni depositate
in triplice copia all’ufficio Sicurezza Sociale.
Uomini e trappole.
Troppe trappole.
Che riuscirono a ghigliottinare anche il suo bene per quell’essere
speciale.
Perdendo.
Perdendola.
Sopra ogni cosa, temo, riconoscendo la vera sconfitta nella sconfitta di
lei, nel suo ritorno verso l’illusoria sicurezza del mondo degli uomini.
Ancora una volta mi è stato dedicato assisterla, la sconfitta, in attesa
che il tempo la renda nota a tutti.
Assistere alla sconfitta.
Il mio compito.
L’unico che il mio incarico prevedeva.
Da povero semplice ufficiale di sola lettura di editti, sentenze, procedure.
Non so come, perché ero bravo nel mio lavoro.
Ma sono rimasto invischiato in quel processo, irrimediabilmente
compromesso anch’io.
Intrappolato anch’io in quella ghigliottina.
Obbligato ad esserci.
In attesa del peggior giorno del mio futuro.
Il giorno nel quale, insieme, mano nella mano, verranno a chiedermi:
“perché non ci hai salvati?”
FranzK.